Atlante Emozionale #004 AmaeLettura: 3 min

Molti di noi, di tanto in tanto, sentono l’impulso di lasciarsi andare tra le braccia di una persona cara per essere coccolati e rassicurati. Questa resa temporanea in totale sicurezza è una sensazione importante, vivificante. L’emozione che provoca in noi non è facile da rendere con una sola parola, ma in giapponese è conosciuta come amae. In Giappone, l’amae è generalmente riconosciuta come parte di ogni relazione umana: la si prova non soltanto tra membri della stessa famiglia, ma anche tra amici e colleghi di lavoro.

Pranzo in famiglia

Ci sono sfumature diverse, però. I bambini possono essere accusati di comportarsi in maniera amaeru quando fanno lusinghe e sgranano gli occhioni nella speranza che qualcuno faccia una cosa al posto loro. Oppure un adolescente può essere messo in guardia rispetto all’essere amai (l’aggettivo corrispondente) se non ha studiato per un compito in classe e immagina che prenderà comunque la sufficienza.

«Comportarsi come un bambino viziato» è un modo di tradurlo; ma va bene anche «contare sulla buona volontà e sulla gentilezza di qualcun altro».

Queste espressioni, però, non rendono giustizia al grado di rispetto che all’amae viene portato. Stando allo psicanalista giapponese Takeo Doi, l’amae è «un’emozione che dà per scontato l’amore dell’altra persona», la troviamo quando facciamo affidamento sull’aiuto di qualcuno senza alcun obbligo di provare gratitudine in cambio. Possiamo anche venire incoraggiati a dimostrare un po’ di amae verso noi stessi, quando stiamo lavorando troppo.

Secondo Doi, abbandonarsi all’amae è importante perché rappresenta un ritorno ai piaceri e all’accudimento incondizionato dell’infanzia. È il collante che permette alle relazioni stabili di prosperare, il simbolo della fiducia più profonda. Il fatto che questa combinazione di vulnerabilità e appartenenza abbia un nome in Giappone ha stimolato la curiosità di molti studiosi delle emozioni. Negli anni settanta gli antropologi occidentali si dedicarono a studiare l’amae con grande entusiasmo: era la prova che anche le nostre emozioni più intime sono per loro formate dalle strutture politiche ed economiche delle società in cui viviamo. Sostenevano che l’amae si era sviluppata nella cultura tradizionalmente collettivista del Giappone, e questo, ai loro occhi, era sintomatico della maniera in cui la società giapponese continuava a celebrare la dipendenza da un gruppo rispetto all’individualismo. Alcuni si spinsero oltre, dicendo che l’amae «definiva il carattere nazionale giapponese», un’affermazione che oggi suona fin troppo semplicistica.

Lo stesso, la facilità con cui i giapponesi raccontano i piaceri dell’amae ci dà molto da pensare. Perché quelli tra noi che sono cresciuti parlando un’altra lingua si trovano in difficoltà quando cercano di raccontare un’esperienza simile? Forse questa lacuna la dice molto lunga su quanto possa essere difficile accettare il sostegno degli altri. Ci si preoccupa di essere considerati “appiccicosi”, o infantili. Si teme di diventare un anello in un’insopportabile catena di obblighi.

E forse, più di ogni altra cosa, si prova l’imbarazzo del dover ammettere che non sempre siamo davvero quegli adulti autosufficienti che ci piace fingere di essere.

Cardux
Mi chiamo Massimo, sono nato nel 1989 e scrivo sul mio sito dal 2008. Cosa ho imparato in questi anni online? Che non si smette mai di imparare...